Inidoneità sopravvenuta del lavoratore alla mansione e divieto di licenziamento: le prime prese di posizione della giurisprudenza di merito

Sin dall’introduzione del divieto di licenziamento disposto dall’art. 46 del D.L. n. 18 del 17/3/2020 (ad oggi prorogato fino al 31/3/2021), una delle questioni pratiche che ha maggiormente impegnato imprenditori e consulenti consiste nella precisa individuazione delle ipotesi di risoluzione del rapporto lavorativo coperte dalla moratoria, e che debbono quindi ritenersi attualmente non consentite.

Il legislatore dell’emergenza, infatti, ha circoscritto l’area dei licenziamenti individuali vietati alle ipotesi riconducibili al cd. giustificato motivo oggettivo di cui all’art. 3 della Legge n. 604/1966, e cioè a quelli effettuati “per ragioni inerenti l’attività produttiva, l’organizzazione del lavoro ed il regolare funzionamento di essa”; categoria, questa, che tradizionalmente ricomprende i cd. licenziamenti per ragioni economiche ma a cui la giurisprudenza ha progressivamente ricondotto una serie di ipotesi eterogenee e non sempre di facile individuazione, accomunate fondamentalmente dalla natura “non disciplinare” del recesso.

Nella prassi, in particolare, si è posto frequentemente – e si pone tutt’ora – il problema se sia o meno riconducibile al divieto de quo l’ipotesi del licenziamento disposto per sopravvenuta inidoneità del lavoratore alle mansioni in precedenza svolte, dovuta a patologie che lo rendano inabile al lavoro sino a quel momento espletato nonché alla contestuale impossibilità di reimpiego del medesimo all’interno dell’impresa.

L’Ispettorato Nazionale del Lavoro, con nota del 24 giugno 2020, aveva risposto affermativamente al quesito evidenziando il carattere tendenzialmente “generale” dell’art. 46 del D.L. n. 18/2020 e rilevando – sulla scorta della giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione – come la configurabilità dell’obbligo di repechage del lavoratore inidoneo, in mansioni compatibili col proprio stato di salute, rendesse “…la fattispecie in esame del tutto assimilabile alle altre ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo”.

Una prima e significativa conferma giurisprudenziale della validità di tale impostazione l’ha offerta una recente sentenza del Tribunale di Ravenna del 7 gennaio 2021, che ha accolto il ricorso proposto da un lavoratore licenziato nell’aprile del 2020 per sopravvenuta inidoneità fisica alla mansione.

Disattendendo le argomentazioni della difesa datoriale, che riteneva come il divieto de quo dovesse applicarsi ai soli licenziamenti causalmente riconducibili all’infausto impatto economico della pandemia sull’attività d’impresa, il Giudice del lavoro ha invece evidenziato anzitutto la natura “indubbiamente oggettiva” del recesso per sopravvenuta inidoneità alla mansione, affermando altresì come anche per tali ipotesi valgano “…le stesse ragioni di tutela economica e sociale” che fanno da sfondo a “…tutte le altre ipotesi di licenziamento per G.M.O. che la normativa emergenziale ha inteso espressamente impedire.

Secondo il Tribunale romagnolo, in particolare, il divieto originariamente introdotto dal D.L. n. 18/2020 tenderebbe a far posporre alle imprese “ogni valutazione aziendale circa l’esistenza…di giustificati motivi oggettivi di licenziamento” alla fase successiva al termine della situazione emergenziale, contraddistinta dall’inevitabile contrazione dei consumi e dell’attività; ne consegue, pertanto, che anche con riferimento alla sopravvenuta inidoneità del dipendente “…solo all’esito del superamento della crisi potrà esservi una attuale e concreta (relativa alla specifica azienda coinvolta) scelta in punto a organizzazione o riorganizzazione aziendale e, dunque, anche in punto al ripescaggio del lavoratore in questione”.

Degne di rilievo sono anche le conseguenze che il Tribunale ricollega, coerentemente con altri recenti pronunce, alla violazione della moratoria in questione.

Secondo la sentenza in esame, il licenziamento disposto in spregio del divieto de quo – stabilito dalla legislazione emergenziale e posto “…a tutela di fondamentali interessi sociali, financo teso alla tenuta del “contratto sociale” stesso, minacciata dall’emergenza causata dal COVID-19” – è radicalmente nullo ed il lavoratore ingiustamente estromesso ha diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro indipendentemente dalle dimensioni dell’impresa, nonché al risarcimento del danno in misura pari alle retribuzioni non percepite dal giorno del licenziamento a quello della reintegra.

Dott. Valerio Laganà