Newsalert – Covid-19 – Decreto legge n. 18 del 17 marzo 2020 – “Misure di potenziamento del Servizio sanitario nazionale e di sostegno economico per famiglie, lavoratori e imprese connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19”.   

Art. 46 – Sospensione delle procedure di impugnazione dei licenziamenti

Norma:

“1. A decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto l’avvio delle procedure di cui agli articoli 4, 5 e 24, della legge 23 luglio 1991, n. 223 è precluso per 60 giorni e nel medesimo periodo sono sospese le procedure pendenti avviate successivamente alla data del 23 febbraio 2020. Sino alla scadenza del suddetto termine, il datore di lavoro, indipendentemente dal numero dei dipendenti, non può recedere dal contratto per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’articolo 3, della legge 15 luglio 1966, n. 604”.

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Commento:

Anzitutto, non ci si può esimere dal segnalare un primo e generale carattere di ambiguità nella norma, che si riscontra già nella evidente discrasia fra titolo (“Sospensione delle procedure di impugnazione dei licenziamenti”) e contenuto dell’articolo.

Con la conseguenza che, mentre il primo induce l’interprete a ritenere che destinatari della norma saranno i lavoratori, ci si ritrova poi a dover confrontarsi con una disposizione che, al contrario, detta delle restrizioni (nei termini che seguiranno) valevoli per i datori di lavoro.

Premesso ciò, mi spingo ad alcune riflessioni sulla ratio e sul contenuto della norma.

Quanto alla prima, è evidente che l’intento del legislatore sia stato quello di evitare che il “fenomeno COVID-19” possa essere utilizzato come motivazione (più o meno autentica) per l’imprenditore per dar luogo ad un recesso dal rapporto di lavoro. E sia quindi quello, in ultima battuta di evitare che il medesimo fenomeno COVID-19 si traduca in un effetto negativo (ulteriore, considerate le note restrizioni che la presente condizione sta imponendo a tutti noi) sulla vita del singolo cittadino-lavoratore.

E che questa sia la finalità cui risponde la norma lo si percepisce a mio parere sin dalle premesse d’apertura dell’atto avente forza di legge (“Ritenuta la straordinaria necessità e urgenza di contenere gli effetti negativi che l’emergenza epidemiologica COVID-19 sta producendo sul tessuto socio-economico nazionale, prevedendo misure di potenziamento del Servizio sanitario nazionale, della protezione civile e della sicurezza, nonché di sostegno al mondo del lavoro pubblico e privato ed a favore delle famiglie e delle imprese).

Sempre in un primo approccio all’articolo, quella che, prima facie, suona sicuramente come una abnorme limitazione alla libertà imprenditoriale, torna ad assumere caratteri di razionalità e di mitezza non appena si ricordi da una parte il suo carattere di temporaneità e, dall’altra, non appena venga letta unitamente alla generale estensione in favore degli imprenditori del ricorso agli ammortizzatori sociali.

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Ciò detto, passando al dettato dell’articolo, il protrarsi dell’emergenza sanitaria in atto sull’intero territorio nazionale ha spinto il legislatore ad intervenire sia sulle procedure di licenziamento collettivo sia sui licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo.

Per quanto riguarda le prime, viene stabilito che a decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto (ossia dal 17 marzo 2020) l’avvio delle medesime è precluso per 60 giorni (ossia fino al 16 maggio 2020) e nel medesimo periodo sono sospese le procedure pendenti avviate successivamente alla data del 23 febbraio 2020.

A tale ultimo proposito, per stabilire l’ambito di applicazione del divieto, vale la pena ricordare che la data di inizio di una procedura di licenziamento collettivo si rinviene nella data di invio della comunicazione preventiva alle organizzazioni sindacali contente l’indicazione dei motivi che determinano la situazione di eccedenza e dei motivi tecnici, organizzativi e produttivi, per i quali si ritiene di non poter adottare misure idonee a porre rimedio alla predetta situazione ed evitare in tutto o in parte, il licenziamento collettivo.

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Se la prima parte della norma non sembrerebbe sollevare particolari problemi, il discorso si complica quando si passa ad esaminare la seconda parte della disposizione, tramite la quale il legislatore ha imposto ad ogni “datore di lavoro, indipendentemente dal numero dei dipendenti” un generale divieto di recesso per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’art. 3 della legge n. 604 del 1966 (e quindi, come noto, riconducibile a “ragioni inerenti all’attivita’ produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”).

Volendo dar luogo ad una interpretazione della norma, è opportuno partire da alcune scontate considerazioni.

Pertanto, è opportuno far presente che deve ritenersi pacifica, oltre al recesso per giustificato motivo soggettivo e al recesso per giusta causa, l’esclusione dall’ambito di applicazione della norma sia del recesso del datore di lavoro dal contratto a termine sia del licenziamento disciplinare.

Del pari, una interpretazione rigorosa della disposizione dovrebbe a mio avviso portare ad escludere dall’ambito di applicazione della norma anche il licenziamento per superamento del periodo di comporto (questo alla luce dell’orientamento giurisprudenziale più recente, cfr. ex multis, Cassazione civile sez. lav., 24/10/2016, n. 21377).

Senonché, in un’ottica prudenziale, sarebbe a mio avviso consigliabile attendere più precise indicazioni oppure, più semplicemente, il decorso del lasso di tempo indicato prima di dare vita ad una simile ipotesi di recesso datoriale.

Chiarito quanto sopra, i maggiori dubbi interpretativi che la parte della disposizione in commento suscita si riscontrano avuto riguardo alle procedure di licenziamento ex art. 7, della legge n. 604 del 1966 – ossia alle procedure di licenziamento individuale per g.m.o. di un lavoratore assunto in data antecedente al 7 marzo 2015 e alle dipendenze di un datore di lavoro avente i requisiti dimensionali di cui all’art. 18 della legge n. 300 del 1970 – iniziate prima della data di entrata in vigore del decreto.

Al riguardo, considerato che ai sensi dell’art. 1, co. 41, della legge n. 92 del 2012 “Il   licenziamento   intimato […]  all’esito del procedimento di cui all’articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n.  604 […] produce effetto dal giorno della comunicazione con cui il procedimento medesimo e’ stato avviato”, in astratto sarebbe legittimo ritenere che le procedure iniziate prima dell’entrata in vigore del decreto e concluse sotto la vigenza del medesimo siano sottratte all’ambito di applicazione della norma.

Più semplicemente, la sospensione dell’attività dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro ed il rinvio “in blocco” delle sedute di conciliazione porta nella realtà dei fatti ad un generale “congelamento” della procedura.

Infine, come ultima considerazione riguardante le sanzioni in caso di violazione del divieto, in assenza di più precise indicazioni da parte del legislatore mi sembra di poter affermare che, quantomeno per i lavoratori sub art. 18 St. Lav., la conseguenza sia da rinvenirsi nella nullità del licenziamento.

Avv. Francesco Chiappetta

f.chiappetta@nexumlegal.it

NexumLegal – Dipartimento di Diritto del Lavoro